STORIE DI MARY JANE: IL TETTO

STORIE DI MARY JANE: IL TETTO



Avete presente quei tetti a terrazza molto comuni nelle costruzioni americane? Quelli dai quali puoi ammirare i palazzi della città stagliarsi all'orizzonte, mentre fai un tuffo in piscina o sorseggi una bevanda? Anche la mia palazzina ne aveva uno; era vecchio, sporco, malconcio, pericolante nella parte centrale dove il peso di acqua e neve stavano accelerando la caduta. Certo non mi trovavo nel centro di Manhattan, ma potevo comunque vedere lo stadio degli Yankees e un piccolo parco oltre i tetti delle case popolari. Il tetto era accessibile attraverso una scala stretta costruita interamente in legno, che scricchiolava e si sgretolava ogni qualvolta i miei piedi poggiavano sui gradini. Alla fine della scala si trovava una porta pesante e cigolante che non poteva essere più chiusa a chiave, tanto marci e arrugginiti erano lucchetto e serratura. L'acqua stagnante intrappolata nel dislivello centrale del tetto puzzava di fogna nei mesi estivi, ma io trovavo sempre un posticino vicino al parapetto dove potermi sedere, girare una canna e ammirare il panorama. Tutto pareva più bello da lassù: non si udiva lo squittire dei ratti che, dall'ingresso del palazzo, cercavano di entrare nell'appartamento disabitato al primo piano; le urla e le minacce degli abitanti del rione, che inveivano tra di loro quotidianamente, erano così lontane e indistinte che potevano essere scambiate per riverenze tra paesani; il pattume abbandonato sulle strade era invisibile alla vista da lassù, così come invisibile era la miseria del quartiere. Quel posto era una piccola oasi felice dove mi nascondevo dalla società, dallo stress e dallo sfinimento dopo una giornata di lavoro, e dalla mia malattia. Nei giorni liberi mi piaceva gustare il tramonto da quell'altezza, perché riuscivo a salutare il sole durante la sua discesa che dava spazio alle tenebre. I suoi raggi avvolgevano il quartiere di una luce calda e armoniosa, e il mio cuore si riempiva di speranza e, allo stesso tempo, di malinconia. Riuscivo a cogliere la maestosità della vita, così come il malessere di un nuovo giorno. La notte era la mia favorita, la splendida e intensa regina dell'oscurità. Non c'è nessun altro momento della giornata in cui posso realmente pensare, creare e vivere come di notte. Con le lacrime agli occhi guardavo verso la luna, cantavo nostalgiche melodie e scrivevo poesie cariche d'angoscia. Ma tutto era meraviglioso, perché quel manto cupo e affascinante mi cullava e mi sussurrava "non temere nulla, trova la forza nella tua anima e urla il tuo dolore al mondo. Io ti proteggerò fino a quando, stanca e avvilita, non potrai fare altro che abbandonarti al sonno e riposare la tua mente in attesa di un nuovo giorno". La solitudine di quel tetto e la magia della notte sono state tutto ciò che avevo per interminabili mesi. La mia presenza su di quella terrazza è stata soffiata via dal vento il dì in cui me ne sono andata, ma l'eco di quei ricordi vivrà per sempre nella mia memoria. Martina.

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